
Pensare di comprendere perché l’Italia sia così malridotta fra le tesi di questo o di quel politico o, peggio ancora, da cori di giornalisti schierati a prescindere, con posizioni per lo più urlate in tv o in qualche talk show, è cosa inutile e dannosa.
Inutile perché, al massimo, qualcosa può essere lanciata e fatta esplodere sui social dove branchi di lupi assetati di sangue e motivati da solo odio sociale non fanno che avallare sempre più la tesi di Umberto Eco per cui è vero che “I social permettono alle persone di restare in contatto tra loro, ma danno anche diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”.
Dannosa poiché si è perso il senso della “Storia” che Rosario Romeo, sulla rivista Nord e Sud nel 1956, aveva illuminato demolendo le tesi espresse da Antonio Gramsci, nei suoi “Quaderni del carcere”, con una distruttiva critica al mazziniano Partito d’azione che, secondo il teorico comunista, non aveva posto in primo piano l’esigenza di una rivoluzione agraria e quindi si era isolato dalle masse contadine subendo così l’egemonia di Cavour e dei moderati, da cui discendeva il totale fallimento del nostro Risorgimento.
A questa distruttiva ipotesi Rosario Romeo controbatteva con una tesi secondo la quale:
- In primis, una rivoluzione agraria e giacobina in Italia avrebbe provocato uno schieramento anti italiano delle maggiori potenze europee ;
- In secondo luogo, che fare dell’Italia un paese rurale basato sulla piccola proprietà avrebbe richiesto una somma di capitali e di risorse assenti nel 19° secolo; e
- In terzo luogo, che fin oltre la metà dello stesso secolo, l’industria italiana era quasi inesistente.
Poiché non c’è futuro senza memoria storica lo sforzo sovrumano da compiere è duplice: da un lato recuperare i fatti abbandonando i pregiudizi e, dall’altro, insegnare ad usare i social come mezzo di diffusione culturale piuttosto che come “sfogatoio” collettivo.
E, proprio per iniziare a fare chiarezza storica lasciando ad altri il compito di occuparsi dei social, vorremo prendere le mosse da un’intervista pubblicata ad agosto del 2012 sul quotidiano La Stampa di Torino: l’intervistato era Reginald Bartholomew mentre l’intervistatore era l’attuale direttore di Repubblica Maurizio Molinari, all’epoca corrispondente dagli Stati Uniti.
Bartholomew fu “Ambasciatore” degli Stati Uniti a Roma negli anni cruciali che vanno dal 1993 al 1997 ovvero gli anni che segnarono la fine della prima Repubblica e l’inizio della sedicente seconda. Di solito a Roma come ambasciatore i presidenti americani vi inviano, molto spesso, i maggiori finanziatori della propria campagna elettorale, quella volta non fu così e la scelta cadde su Bartholomew poiché era considerato un professionista della politica ed, in quegli anni di stravolgimenti in Italia, occorreva una personalità che era stata a lungo già sottosegretario di Stato agli Armamenti, ex ambasciatore a Beirut ed a Madrid oltre che presso la Nato.
Molinari lo incontrò ed era consapevole che il suo intervistato aveva compiuto 76 anni nel 2012, quello di cui non era a conoscenza si riferiva alla circostanza che l’ex ambasciatore si trovava in “fase terminale” per un tumore. L’incontro avvenne su richiesta del vecchio diplomatico, il quale parlò di cose, fatti e circostanze sconosciute sino ad allora e che, vista la loro rilevanza nella storia recente italiana, avrebbero dovuto sollevare un gran trambusto ma ciò non avvenne e non si ebbe il clamore e l’esigenza di approfondire i temi posti in rilievo come gli stessi avrebbero invece meritato.
Tutti i particolari sarano messi in risalto in una nostra prossima monografia in fase di conclusivo sviluppo, al momento vogliamo offrire al lettore qualche spunto di riflessione.
La premessa dell’ex ambasciatore, in assenza di specifiche richieste da parte dell’intervisatore Molinari, ha il sapore di una excusatio non petita: “Non ho diari, ho solo la mia mente per ricordare!” Si potrebbe aggiungere e sottintendere che: “Omnia non dicam sed quae dicam omnia vera” ovvero “ Non dico tutto quello che so, ma quello che dico risponde al vero”.
In seconda battuta, a precisa domanda, l’intervistato afferma che, se fino a quel momento il suo predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto col pool di Mani Pulite, con il suo arrivo tale stato dei fatti fu radicalmente modificato interrompendo i contatti sino ad allora intrettenuti e riaccentrando nelle prorie mani la stuazione presso la sede dell’Ambasciata in via Veneto a Roma.
L’ammissione dei collegamenti fra Peter Semler, console americano a Milano dal 1990, e la Procura meneghina diventa di dominio pubblico e, se fino a quel momento, il suo predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto con il pool di Mani Pulite, da quel momento in poi tutto ciò fu bloccato.
Inoltre approfittando della visita in Italia del giudice della Corte Suprema statunitense Antonino Scalia, l’ambasciatore Bartholomew commette anche lui una pericolosa invasione di campo: organizza una riunione con sette importanti giudici italiani e li costringe a confrontarsi con il problema della violazione dei diritti della difesa da parte della procura di Milano.
Dei sette giudici importanti l’intervistato non fece i nomi ma, cosa certamente grave, con la propria iniziativa ha posto i “sette innominati” nella condizione di violare il proprio giuramento alla Carta costituzionale italiana, alla quale avevano giurato fedeltà e lealtà nel momento di assumere i propri incarichi.
Chi siano questi giudici, ad oggi, non è dato ancora di sapere!