
Uno spettro si aggira per l’Occidente: lo spettro del solidarismo, dell’egualitarismo, dell’accoglienza a ogni costo, del demoniaco disprezzo di sé e della propria storia. Le antiche teorie marxiste si riciclano sotto altra forma. Persino nella nazione che ha scelto la meritocrazia come stile di vita, gli USA, attecchisce
- il pensiero unico “politicamente corretto”,
- la litania dell’equa distribuzione del reddito, e
- lo storicismo delle magnifiche sorti e progressive.
Questa deriva delle buone intenzioni è alimentata da un’inedita convergenza tra grandi imprese, continuatori del comunismo sotto altre forme, e massime autorità ecclesiastiche, le quali oggi sembrano pervicacemente impegnate a riflettere lo spirito del tempo: tutti favorevoli alla globalizzazione, vale a dire
- all’erosione delle sovranità nazionali,
- ai flussi migratori intesi come fenomeno irrefrenabile e comunque provvidenziale,
- alla retorica dei diritti umani.
Quest’ultimo concetto, giuridicamente assai vago, si presta a essere utilizzato, in spregio al diritto positivo, per gli scopi più eterogenei: ad esempio,
- per legittimare un trattamento di miglior favore per i migranti, indipendentemente dall’accertamento della loro condizione di profughi, o
- per giustificare l’occupazione abusiva di alloggi.
La dottrina dei diritti umani non esita a porsi in conflitto con la legalità, poiché essa pretende di fondarsi su un confuso giusnaturalismo, che non ammette obiezioni, e di essere animata da un utopismo che va perseguito anche a scapito degli interessi del popolo; interessi che l’élite fautrice di tale dottrina suppone peraltro di poter orientare a proprio piacimento, imponendo ai mezzi di comunicazione l’adozione di una neolingua orwelliana – un vocabolario da cui vengono espunti i termini sgraditi – e demonizzando finanche
- capolavori dell’arte in quanto lesivi della sensibilità islamica o
- Cristoforo Colombo in quanto iniziatore, pur involontario, della sottomissione degli indigeni delle Americhe all’uomo bianco.
In economia, obiettivo degli strali di tale linea di pensiero è il profitto. A esso viene sostituito ipocritamente il concetto di utilità sociale dell’impresa, al quale i grandi produttori di beni e servizi sono ben lieti di ricorrere nelle campagne di marketing per abbindolare il consumatore, facendogli credere di svolgere una funzione benefica per la collettività.
Ma, in realtà, come insegnava Luigi Einaudi, “l’imprenditore opera, ossia corre rischi, quando vede la possibilità di un profitto, di una differenza positiva fra il prezzo ricevuto dai prodotti venduti ed il costo dei fattori produttivi acquistati” (L. Einaudi, Il mio piano non è quello di Keynes, Soveria Mannelli 2012, p. 204).
Condannare il profitto equivale a stigmatizzare il libero mercato, senza il quale non potrebbe accrescersi la ricchezza e il benessere comune. Il nuovo marxismo, che si dissimula anche sotto la parvenza di un presunto cristianesimo delle origini, dovrebbe considerare che l’impoverimento conseguente all’eliminazione del profitto minerebbe la possibilità di sostenere e accogliere i meno abbienti.
È curioso che in un paese come l’Italia, che non ha quasi mai conosciuto il liberismo nella sua storia, tale sistema sia oggetto di vituperio; atteggiamento verosimilmente dovuto alla diffusa mentalità assistenzialista maturatasi nei decenni dell’eccessiva presenza dello Stato nell’economia e del clientelismo elevato a regime.
La vera rivoluzione in Italia sarebbe battersi per una sana concorrenza in un mercato libero ed efficiente, in mancanza della quale non può esserci giustizia sociale.
Certo, vanno combattute le distorsioni dell’economia di mercato. Einaudi in proposito puntava il dito contro l’ingordigia, l’incapacità alla rinuncia e al risparmio, l’economia di carta “degli scemi, dei farabutti e dei superbi”.
Programma ambizioso, indubbiamente, prefiggersi di emarginare scemi, farabutti e superbi, ma sicuramente più realistico e più degno rispetto a farsi affascinare dalle chimere del neo-collettivismo.