
Con il termine globalizzazione si vuole intendere un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo . A tale integrazione se ne è affiancata anche un’altra, quella giuridica: è infatti emerso, nell’epoca della globalizzazione, un singolare avvicinamento delle legislazioni dei diversi Paesi che hanno introdotto una responsabilità diretta degli enti da reato. Basti pensare ai compliance programs sorti negli Stati Uniti d’America. E questo in un settore come quello del diritto penale che ha sempre rappresentato (e continua ad esserlo) un baluardo del principio di sovranità e di autoregolamentazione degli Stati.
La componente transnazionale dell’Ordine giuridico globale deriva dai limiti stessi della globalizzazione giuridica. Più i mercati nazionali si aprono l’uno all’altro, più diventano evidenti asimmetrie e contrasti. Per ridurli, livellando il campo d’azione, le norme globali possono stabilire principi generali, ma non entrare in tutti i dettagli. Questi principi generali facilitano il trasferimento di istituti da un ordinamento domestico all’altro e stimolano la ricerca di analogie funzionali nascoste da differenze formali dei sistemi nazionali. Infine, il transnazionalismo dell’ordine giuridico globale suggerisce cautela nel parlare di crisi dello Stato e di fuga verso il livello globale, perché la dinamica del sistema amministrativo globale è ancora largamente dipendente dallo Stato.
Per quanto riguarda, più specificatamente, i delitti tributari, questi sono i tipici reati della globalizzazione: i suoi effetti si manifestano in tutta la loro forza, anche generando condizioni favorevoli per la commissione di illeciti rilevanti ai fini del d.lgs. 231/2001, creando, attraverso le differenze di legislazione, le condizioni migliori per porre in essere questa tipologia di reati: tipico esempio sono le frodi carosello. In questo contesto si innestano i gruppi di imprese multinazionali che ricorrono a tale modello al fine di frazionare il rischio economico e sfruttare i vantaggi fiscali, agevolati da una maggiore facilità di adattamento ai sistemi giuridici stranieri.
Stessa conseguenza ha avuto la crisi economica appena trascorsa e quella attuale provocata dalla pandemia, che ha spinto verso un aumento esponenziale dei reati fallimentari e di quelli tributari .
Responsabilità da reato degli enti e delitti tributari si sono per lungo tempo osservati da lontano ed in alcuni casi si sono anche toccati senza unirsi veramente (fino alla riforma che li ha introdotti nel novero dei delitti presupposto della responsabilità degli enti), esplicitando così quelle affinità, quell’unità d’intenti che caratterizza il moderno diritto (penale) dell’economia, e non solo (i reati contro la pubblica amministrazione ne sono un chiaro esempio).
La realtà economica rappresentata dal mondo delle imprese commerciali ed industriali intese lato sensu, qualunque tipologia di attività esse svolgano, risente in maniera direttamente proporzionale alla loro complessità organizzativa degli interventi legislativi su un’ampia categoria di settori (della vita aziendale) anche apparentemente lontani da quello che è l’oggetto sociale che ogni impresa si prefigge di perseguire.
Ciò avviene a prescindere dal fatto che i provvedimenti legislativi consistano in interventi che vadano ad incidere su settori del diritto privato (diritto civile, diritto commerciale) o del diritto pubblico (diritto penale, diritto amministrativo, diritto tributario), sostanziale e processuale:
la corretta comprensione di questo fenomeno richiede una sintesi scientifica multidisciplinare dei tanti profili – eterogenei – di compliance aziendale coinvolti.
A ciò si accompagna una tendenza al panpenalismo, tendenza che si è andata rafforzando negli ultimi anni, accompagnata da un populismo (anche) penale che vede nel persecuzione (nella sua massima estensione) della devianza economica uno strumento di giustizia sociale, ed il proprio strumento attuativo nella legislazione penale compulsiva .
È, infatti, impossibile non accorgersi delle “tante leggi organizzative […] guarnite con obblighi e divieti corredati da pena, che dovrebbero fare da ostacolo alla loro inosservanza”, sull’ “incredibile” presupposto fissato dalla convinzione che la previsione e “l’inasprimento delle pene” siano di per sé mezzi efficaci per la tutela dei beni giuridici .
Ad esempio, entrando immediatamente in “media res”, l’art. 39 del d. l. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni dalla l. 19 dicembre 2019, n. 157, in vigore dal 25 dicembre dello stesso anno, ha inasprito in maniera rilevante la disciplina penale tributaria: è questo il frutto del populismo penale, il quale attribuisce allo jus terribile la funzione di strumento per ottenere consenso .
Non solo, nel diritto penale dell’economia, ha preso piede negli ultimi anni lo strumento della legge delega, cioè uno strumento normativo che una parte della dottrina ritiene incompatibile con le istanze di garanzia sottostanti al principio di legalità, sotto il profilo della riserva di legge. Interi settori del diritto penale dell’economia sono stati profondamente innovati sulla base di leggi delega al governo, il quale con i decreti legislativi ha cristallizzato le definitive scelte di criminalizzazione. Le riforme penalistiche in materia di reati finanziari, di reati tributari e di reati societari sono state realizzate sulla base di leggi delega più o meno articolate che comunque hanno sempre visto l’esecutivo esprimere valutazioni discrezionali nella confezione del divieto penale .
Le considerazioni che precedono acquisiscono un significato ancora più ampio nel momento in cui si prendano in considerazione aspetti di carattere transnazionale, come la globalizzazione (economica e giuridica), che sta modellando, fin dalle sue fondamenta, un “diritto sanzionatorio mondiale”
Il fenomeno della globalizzazione ha intrinsecamente trasformato i rapporti tra economia e diritto nonché messo in crisi la stessa capacità degli ordinamenti giuridici statali di fornire una disciplina esaustiva a livello economico. Se il diritto, infatti, non sembra poter prescindere da un ambito territoriale nel quale lo Stato esercita la propria sovranità, le attività economiche, invece, non risultano vincolate da un radicamento territoriale. La produzione dei beni può svolgersi ovunque, delocalizzarsi o articolarsi in luoghi diversi e l’offerta rivolgersi a mercati sempre più estesi, senza confini trasformandosi in un mercato globale. Per questi motivi lo spazio del diritto, coincidente con il territorio dei singoli Stati, non riesce a ricalcare lo spazio dell’economia .
Quanto sopra accennato influisce negativamente sul controllo esercitato dalle giurisdizioni nazionali, che si ritrovano con strumenti inidonei a fronteggiare il potere delle organizzazioni criminali internazionali e delle imprese multinazionali, dotate di articolazioni complesse, che agiscono sul territorio di Nazioni differenti e riconducibili anche ad aree continentali diverse .
In particolare, nell’ambito del diritto penale dell’economia, la globalizzazione sembra diffondere istanze di autonormazione da parte dei soggetti privati .
Epifenomeno delle precedenti istanze è rappresentato dalla responsabilità da reato delle persone giuridiche, in particolare nel momento in cui operano a livello internazionale (globale). L’ente, infatti, si deve confrontare con diversi regimi normativi e diversi sistemi di “compliance”: l’autonormazione da cui si genera tale compliance è rappresentativa di una tendenza a prevenire il rischio reato, che va ad “inquinare” il diritto penale classico .
La responsabilità penale (o parapenale) delle società si avvia ad essere, e in parte già è, un caposaldo dell’‘ordinamento globale (rectius: globalizzato)’, e si dimostra banco di sperimentazione sia di innovative tecniche di imputazione del reato, che di ‘nuove’ tipologie di sanzione. Vi è dunque una linea di sviluppo, a largo raggio, di sostanziale superamento del principio societas delinquere non potest, con un effetto di trasformazione di finalità e contenuti dello strumento penale, in un più ampio contesto evolutivo di ridefinizione dei confini rispettivi tra sanzioni amministrative, sanzioni civili (punitive), sanzioni penali e misure di prevenzione .
Questa “chiamata alle armi” contro la criminalità economica sembra destinata a divenire il cuore del rimprovero penale e dell’irrogazione, in caso d’inadempienza, delle sanzioni a carico dell’ente. Infatti, la colpa dell’ente consiste, appunto, nel restare inattivi o nel non attivarsi in modo adeguato contro i rischi interni di condotte devianti.
Un ulteriore elemento caratterizza gli ultimi venti anni del diritto penale dell’economia: il controllo interno demandato allo stesso imprenditore attraverso il fiorire di nuovi e numerosi organi a ciò preposti. Il tutto con funzione esimente (o attenuante) della responsabilità e la conseguenziale nascita di posizioni di garanzia in diversi ambiti: antinfortunistica (sui luoghi di lavoro), antiriciclaggio, anticorruzione; il suffisso “anti” dinnanzi al reato o al fatto che si intende prevenire è diventato uno dei principali strumenti di lotta alla criminalità economica e dei colletti bianchi .
Pubblico e privato si sono fusi in un coacervo di adempimenti di natura privatistica con effetti pubblicistici.
Una conseguenza indiretta di tale evoluzione è il vedere popolarsi il processo penale (inteso qui anche come luogo fisico) di nuovi attori, professionisti che fino a qualche anno fa non avevano mai frequentato un’aula del Tribunale penale o lo avevano fatto per motivi strettamente attinenti alla propria professione: ingegneri, architetti, commercialisti, avvocati amministrativisti, magistrati in pensione, militari in pensione, consulenti del lavoro, etc.
Tutto questo ha anche un costo economico, molto elevato, che non sempre trova conforto in un risultato soddisfacente. Il risultato non conforme alle aspettative, tuttavia, non è sempre addebitabile al soggetto (persona fisica o giuridica) che quell’adempimento pone in essere, ma anche al fatto che la normativa di riferimento non mette sempre nelle condizioni l’imprenditore di confrontarsi con una regola che abbia le caratteristiche proprie della norma penale classica.
C’è una grande differenza tra il vietare un comportamento, punirne la commissione ed il richiedere un comportamento attivo che elimini il rischio che quello stesso comportamento venga tenuto, o si verifichi un evento.
Il culmine di questa deriva del diritto penale moderno lo si è raggiunto con il d.lgs. 231/01: non solo perché ha in maniera dirompente creato una nuova forma di responsabilità (amministrativa) diretta derivante dalla commissione di un reato in capo ad una persona giuridica, ma soprattutto perché può essere considerata la summa di tutto quello che fin qui abbiamo rappresentato, il punto di approdo di un atteggiamento del legislatore che, come meglio vedremo più avanti, è riuscito in un solo colpo a sintetizzare le tendenze e gli umori di un diritto penale sempre più orientato alla creazione di paradigmi ascrittivi di nuove responsabilità e di “nuovi” soggetti coinvolti .
La (speciale) responsabilizzazione dell’ente per fatti reato commessi da soggetti allo stesso legati nel suo interesse o a suo vantaggio ha reso questa forma di imputazione centrale nelle strategie preventive del diritto penale moderno nonché, sul piano aziendale e societario, nei sistemi di controllo interno, oggi più che mai orientati a mitigare il rischio di commissione di tali reati. Parallelamente si è assistito ad un ampliamento della giurisdizione penale .
Ed infatti, la sempre maggiore centralità delle organizzazioni nella società moderna, in un contesto di rapida e globalizzata evoluzione tecnologica e di nuovi scenari produttivi, aveva ormai da tempo messo a nudo i limiti dei meccanismi volti a sanzionare unicamente l’individuo , unitamente all’accresciuta incidenza, da un lato della criminalità economica e, dall’altro, di manifestazioni criminali tipiche della “società del rischio”, riconducibili alla nozione di colpa di (o da mancata) organizzazione.
Il modello di ascrizione dell’illecito delineato dall’art. 6 del d.lgs. 231/2001, che ha punto centrale nell’adozione dei compliance programs, segna infatti un brusco cambiamento nei rapporti tra diritto penale e governance societaria . Nel diritto penale dell’economia lo strumento penale è chiamato fondamentalmente ad assicurare, con la ‘minaccia’ della sanzione penale, il rispetto delle regole poste dalle norme di carattere extrapenale. L’approccio di carattere meramente sanzionatorio ha sempre caratterizzato il settore societario: lo strumento penale, cioè, si è sempre limitato ad apprestare tutela all’apparato civilistico, o amministrativo, di corporate governance .
Da questo punto di vista la disciplina di cui al d.lgs. 231/2001 rappresenta un’importante novità: il diritto penale, anziché limitarsi a prendere atto della normativa di riferimento civilistica ed amministrativa volta ad assicurare la corretta e legittima organizzazione della società, introduce un’autonoma disciplina, non solo prevedendo la necessità dell’adozione ed efficace attuazione di un modello organizzativo volto a prevenire la commissione di reati, ma contemplando altresì l’introduzione dell’organismo di vigilanza.
Ciò ha un peso specifico elevato all’interno della struttura societaria, in particolare con riferimento ad alcune tipologie di reati presupposto. Rispetto, ad esempio, ai reati di corruzione e truffa aggravata, il loro impatto è sicuramente inferiore rispetto alla prevenzione dei reati societari e dei reati tributari, in quanto in questi ultimi casi i modelli preventivi vanno ad incidere sulla ‘vita’ della società, integrando la violazione delle specifiche norme volte a disciplinare il funzionamento della società stessa e non, come i primi, sullo svolgimento dell’attività societaria volta al raggiungimento dell’oggetto sociale.
La globalizzazione dei mercati ha prodotto anche un ulteriore ed interessante (ai fini che qui rilevano) effetto:
la convergenza verso modelli uniformi di fiscalità internazionale anche oltre i confini dell’Unione Europea. Non si tratta solo di fiscalità distributiva, volta cioè a delimitare le potestà impositive dei singoli Stati, visto che accanto ad essa si pongono sia discipline tributarie a carattere impositivo, è il caso dell’IVA e dei tributi doganali, che di natura anti-elusiva.
In questo contesto le legislazioni nazionali, variamente integrate da normative convenzionali, da un lato, e da sistemi di soft law, dall’altro, spesso si trovano costrette ad un ruolo meramente passivo di recepimento di soluzioni elaborate dall’esterno .
Non solo, la globalizzazione e la internazionalizzazione dei mercati, la nascita di imprese multinazionali, l’evoluzione tecnologica e commerciale, l’e-commerce, lo sviluppo e la diffusione di prodotti immateriali (le apps, i servizi on line), l’aumento dell’importanza dei c.d. intangibles (ad es.: marchi e brevetti, cioè fonti di reddito dematerializzate, allocabili in Paesi diversi con molta facilità), hanno fatto sì che le Nazioni si muovessero al fine di sviluppare un sistema fiscale maggiormente ispirato a criteri di personalità, sensibile anche a fatti (rectius: redditi) realizzatisi all’estero .
Al tempo stesso, i richiamati fenomeni economici di globalizzazione, internazionalizzazione e dematerializzazione della ricchezza hanno aperto la strada a nuove forme di evasione ed elusione . Si vuole fare riferimento, in particolare, alle norme che contrastano: lo spostamento di imponibile in Paesi a bassa fiscalità mediante l’utilizzo di società controllate estere; il trasferimento di imponibile in paradisi fiscali mediante l’addebito di costi non congrui; le fittizie residenze di persone fisiche e società.
Se le risorse finanziarie provenienti dal mercato globale derivano da un sistema produttivo e da una rete commerciale che prescinde dall’esistenza di confini nazionali, anche la repressione delle fattispecie criminali dovrebbe prescindere da una visione nazionalistica del diritto penale e dai suoi strumenti normativi di contrasto ai fenomeni delinquenziali transnazionali .
Ad oggi sono state sottoscritte dall’Italia circa cento Convenzioni bilaterali: le relative previsioni hanno aperto la strada anche a forme di abuso volte ad ottenere indebiti vantaggi fiscali (c.d. treaty abuse e treaty shopping). Tali forme di abuso vengono contrastate non solo dagli ordinamenti interni, ma anche dalle medesime Convenzioni: il Modello OCSE esordisce con un preambolo che evidenzia come la finalità della Convenzione sia quella di eliminare la doppia tassazione, senza creare opportunità di “non taxation or reduced taxation trought tax evasion or avoidance” .
Nel Diritto dell’Unione Europea in ambito tributario alcune materie sono armonizzate con regolamento (il diritto doganale) o con direttiva (l’imposta sul valore aggiunto); altre, invece, sono armonizzate solo con riferimento a specifici aspetti: le imposte dirette, ad esempio, hanno visto l’emanazione di direttive in materia di operazioni transfrontaliere, di dividendi, di canoni, di interessi ed in materia di contrasto all’elusione.
Con riferimento alle Direttive , una coinvolge direttamente, ad ampio raggio, gli argomenti qui trattati. Si tratta della Direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 20l7 (c.d. direttiva PIF), che reca norme per la “lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale”.