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Il mondo in una canzone

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Il mondo in una canzone

Nel suo recente pamphlet “68 tesi contro il ‘68”, Marcello Veneziani afferma: “Nel ’68 cambiò tutto ma non successe nulla. Non c’è un evento cruciale, storico, simbolico che abbia caratterizzato il ’68. Nessuna presa della Bastiglia, nessun assalto al Palazzo d’Inverno, nessuna decapitazione di sovrani e nessun avvento al potere. Non accadde nessuna rivoluzione e nemmeno un’insurrezione con vincitori e vinti, vittime e prigionieri. Non ci fu una guerra e nemmeno vere battaglie. Un anno povero di grandi eventi legati alla Contestazione ma pieno di parole, traboccante di slogan, di gesti simbolici, di sfilate, di proteste, di scontri, ma senza bilanci storici. Verboso, parolaio: interminabili e scontrose assemblee. Pochi fatti, tanta Chiacchiera”.

Il giudizio di Veneziani sui “formidabili anni” (così definiti da Mario Capanna) della contestazione giovanile è tutt’altro che isolato. Il pensiero “conservatore” si è sempre espresso in modo assai critico nei confronti di quella stagione, e ancor più riguardo alle sue rievocazioni agiografiche cui sono inclini personaggi come il suddetto Capanna. Ma la valutazione che tende a ridimensionare la rilevanza del ’68 trova riscontro anche tra le fila di coloro che vi parteciparono e che, pur continuando a definirsi “progressisti”, oggi nutrono perplessità sull’autentica portata rivoluzionaria del movimento e soprattutto sull’onestà intellettuale di molti suoi protagonisti. Esemplare il caso di una ex sessantottina inglese, Jenny Diski, la quale, in un libro sul tema (The Sixties, Profile Books ltd, London 2009), traccia un bilancio fallimentare degli anni Sessanta.

La polemica politica tra estimatori e detrattori del ’68 rischia ormai di ridursi a un ozioso esercizio dialettico. Ci sembra, invece, interessante una frase della sunnominata scrittrice, secondo cui l’unica cosa che si può con certezza affermare a proposito dell’epoca è che la musica di allora era migliore di quella di oggi.

Infatti, tutte le pietre miliari della musica pop sono state sfornate in quegli anni. Per una insondabile sincronicità, per effetto di una concatenazione di coincidenze le cui cause non saranno mai univocamente appurate, ci fu un profluvio di creatività che trovò nella musica il suo sbocco privilegiato. Le droghe indubbiamente accompagnarono il fenomeno, ma non furono esse a determinarlo: come sosteneva Baudelaire nei Paradisi artificiali, esse accentuano, espandono qualità già insite nell’artista, non le creano.

È significativo che la pubblicità televisiva e radiofonica continui ad adottare i brani dell’epoca, spesso nelle versioni originali, che mantengono a dispetto del tempo (sono trascorsi cinquanta anni!) una vibrante genuinità. I teen-agers di oggi sanno chi erano i Beatles e li ascoltano. Per i loro coetanei degli anni Sessanta sarebbe stato inconcepibile mettere sul piatto del giradischi le canzoni delle prime decadi del Novecento. Ciò rivela che, in realtà, al di là dell’apparente accelerazione storica, negli ultimi decenni non vi sono stati cambiamenti radicali nella musica popolare, la quale appare ora essersi rinchiusa nel vicolo cieco della ripetizione con varianti di vecchi stilemi.

Se vale la pena di commemorare qualcosa del Sessantotto, la scelta deve cadere indubitabilmente sulla musica. In quell’anno, nel pieno di una stagione di straordinaria eclettica effervescenza della cultura psichedelica che da Londra, New York e San Francisco si irradiava per il mondo, uscì l’album Ogdens’ Nut Gone Flake degli Small Faces. Il long-playing conquistò la vetta della classifica dei dischi più venduti del Regno Unito e vi rimase per sei settimane.

Caratterizzato da una copertina rotonda che riproduceva un’antica scatola di tabacco, il disco si poneva sulla scia di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, uscito l’anno precedente, e anticipava Tommy degli Who, che apparirà l’anno successivo. Si tratta quindi di un concept album, i cui brani ruotano attorno a un unico tema e, nel loro complesso, sviluppano una storia: in questo caso, la ricerca, da parte del protagonista Happiness Stan, del lato nascosto della luna.

Gli inglesi sono maestri nell’arte di confezionare prodotti innovativi con una patina old fashioned. Il loro congenito conservatorismo si esprime nella capacità di coniugare la tradizione con il cambiamento evitando strappi e senza arroccarsi passivamente nella difesa di un passato irripetibile. La storia del rock britannico dovrebbe essere rivisitata in questa chiave; ne scaturirebbe una visione meno politicamente orientata.

C’è qualcosa del passato che merita di essere conservato e questo disco lo dimostra. Ad esempio l’oziosa atmosfera di una domenica londinese, celebrata in Lazy Sunday, il brano più emblematico dell’album. Il cantante Steve Marriott lo intona con uno spiccato accento proletario cockney, che ispirerà Johnny Rotten dei Sex Pistols. La voce di Marriott è sporca, graffiante e al contempo fluida come un liquore. Robert Plant dei Led Zeppelin porterà questo stile vocale ai suoi vertici espressivi.

La canzone, una sorta di bizzarro, geniale vaudeville, si conclude sullo sfondo di garriti di rondini e rintocchi di campane: la dissolvenza di un mondo che suscita nostalgia.

Italo Inglese