
Si discute ancora molto se la bassa produttività del lavoro, caratteristica da diversi anni del nostro sistema produttivo, sia legata alla dimensione delle aziende italiane, ovvero, trovi ragione in altre variabili del mercato, come l’alto costo del lavoro, ovvero il basso valore del prodotto.
In effetti, il parametro della produttività (data dal rapporto fra valore aggiunto e occupati totali) misura il rendimento medio dell’input di lavoro in termini di produzione. Peraltro, da questo parametro dipende anche il c.d. “costo del lavoro” (o CLUP), dato dal rapporto tra redditi medi da lavoro dipendente e produttività media del lavoro.
Occorre tuttavia osservare che la produttività del lavoro non è stata sempre bassa. In un periodo non recente l’Italia vantava un primato che faceva dei nostri lavoratori i “giapponesi” d’Europa. Peraltro, la dinamica della produttività italiana è stata per lungo tempo in linea con quella tedesca, in particolare nei decenni scorsi, evidenziando un arresto a partire dalla seconda metà degli anni 90.
Ora credere che le imprese italiane siano improvvisamente diventate microscopiche ed improduttive per la gran parte lascia davvero increduli e pone in forte dubbio la validità di una tesi che imputi la perdita di produttività prevalentemente al “nanismo” delle nostre aziende.
Ma allora qual è il problema?
Va detto che un aumento della produttività del lavoro comporta una riduzione del relativo costo (il quale diminuisce a parità di reddito medio) e che quindi, in linea di principio e considerando un mercato oligopolistico, se diminuisce il CLUP diminuiscono anche i prezzi alla produzione, fenomeno che si ripercuote sull’andamento dei prezzi nel lungo periodo. Dunque una maggiore produttività calmiera i prezzi e, in definitiva, rende l’impresa più competitiva.
Al riguardo non sono poche le ricette suggerite dagli economisti.
In effetti, il progresso tecnico e la diffusione di nuova tecnologia è uno degli strumenti più efficaci ed, in tal senso, la rivoluzione digitale è capace di arrecare benefici notevoli all’impresa che l’applicasse correttamente; peraltro verso, anche l’aumento della dimensione aziendale permette,il più delle volte, di beneficiare di economie di scala; tale constatazione è favorevole all’ipotesi di coloro che sostengono che un forte impulso alla crescita della produttività possa derivare da una politica di sostegno allo sviluppo della dimensione media delle imprese, anche attraverso processi di accorpamento e fusione.
Peraltro, le politiche nazionali che favoriscano l’implementazione della conoscenza e l’uso efficiente dei fattori produttivi, le innovazioni nel processo produttivo, i miglioramenti nella organizzazione del lavoro e delle tecniche manageriali, o che sostengano i processi di istruzione e formazione della forza lavoro come strumento d’incremento della produttività, sono favorite in realtà aziendali caratterizzate da una maggiore dmensione.
Dunque, sembra che il mantra “innovazione – ricerca e sviluppo” ha ben ragione di essere.
A ben vedere però le cose dette rappresentano solo un aspetto della verità”, la quale appare più complessa.
Ed in effetti, l’impresa ha un principale problema che possiamo riassumere nel “vendere ciò che si produce”; l’assenza di un mercato capace di assorbire la produzione blocca il processo d’investimento e contrae il livello delle operazioni in corso.
Il mancato collocamento del prodotto determina le condizioni favorevoli ad una riduzione dei prezzi e dunque, riducendosi il valore aggiunto degli investimenti, si determina un’inevitabile contrazione del parametro “produttività del lavoro” con innalzamento del suo costo medio, a parità di livello salariale.
Dal punto di vista dell’autore, il problema italiano è che l’entrata in circolazione dell’Euro, con un rapporto di cambio sfavorevole, ha compromesso il nostro livello delle esportazioni, con conseguente riduzione della produttività media del lavoro; è l’effetto della negoziazione di “prezzi reali” in euro non economici, ovvero non sempre remunerativi degli investimenti produttivi.
L’ipotesi da noi presentata trova sostegno in alcune importanti fonti della letteratura economica, quale Adam Smith che definì la produttività come fattore “endogeno” al sistema in connessione all’ampiezza del mercato, o il modello Kaldor-Thirlwall, il cui enunciato indica che la crescita è direttamente proporzionale al livello raggiunto dalle esportazioni.
Al riguardo ci sembra opportuno ricordare la “parabola” dell’albero da frutta di Einaudi.
In tale comparazione l’ampliamento del mercato, rendendo conveniente la divisione del lavoro, dà luogo allo sviluppo della specializzazione ed all’adozione di nuove tecnologie da parte delle imprese. Ciascun’azienda può imitare le altre, se trova che ciò riduce i costi e migliora la qualità dei prodotti. L’ampliamento del mercato comporta anche l’entrata in campo di un maggior numero di produttori, e ciò accresce la concorrenza: “La concorrenza, che con un mercato ampio è assai più arduo sopprimere o limitare che su un mercato ristretto, agisce e costringe i produttori a ridurre i prezzi al livello dei costi marginali”.
Nella teorica einaudiana dei mercati aperti, dunque, la concorrenza tendenzialmente non conduce ad un equilibrio stazionario bensì genera un processo dinamico di riduzione dei costi, tramite le innovazioni di processo e di prodotto che sono incessantemente stimolate dall’esigenza di sostenere il livello dei profitti, continuamente erosi dai competitori che imitano gli innovatori. Ma resta inteso che tutto ciò è possibile in un quadro di mercati che si ampliano.
Per altro verso oramai sembra acquisito che la competitività tedesca sia dovuta, in effetti, ad un listino prezzi svalutato dall’euro ed a politiche del lavoro spesso scorrette e scoordinate rispetto agli altri partner europei; quindi un aumento di produttività realizzato in definitiva col taglio dei salari reali (come, peraltro, gli stessi sindacati tedeschi rivendicano da tempo) e non dovuto ad incrementi “reali”, ed il cui tasso di crescita ha mostrato una riduzione dal 2003 mentre oggi sembra essere stagnante.
Quindi l’autore non condivide l’ipotesi secondo la quale una bassa produttività del lavoro sia necessariamente connessa ad un ridotto livello degli investimenti tecnici.
L’assunto è vicino alla visione “neoclassica” secondo cui è “l’offerta a determinare la dimensione ed il contenuto della domanda”; è un ritornello che tenta di spiegare la crescita (e quindi anche la dinamica della produttività) solo con riguardo alla struttura della produzione.
A dire il vero sembra che anche il nuovo Piano Nazionale Resilienza e Resistenza (PNRR) con gli incentivi per gli investimenti produttivi, la rivoluzione digitale ed altro, sia disegnato su questa ipotesi ed approccio scientifico.
Peraltro, questa politica economica porta in seno una contraddizione: se si conserva contenuto il livello dei salari monetari, in ragione di una dinamica inflattiva molto bassa ed un’alta disoccupazione, come si potrà pretendere che l’impresa scelga di investire per un input tecnico di maggiore intensità, quando si preferirà utilizzare più lavoro per il suo contenuto costo di approvvigionamento, sacrificando anche il livello degli investimenti in ricerca e sviluppo?
Dunque gli attesi capitali di matrice europea potrebbe rilevarsi inefficaci per un reale rilancio della nostra Economia.
Le ragioni possono essere essenzialmente due.
La prima è che gli interventi messi in campo non incidono (o meglio incidono solo parzialmente e, soprattutto, non nella misura necessaria) sulla domanda interna, né tanto meno su quella esterna favorendo le esportazioni. Non essendoci lo stimolo a produrre, infatti, le imprese potrebbero rinunciare a realizzare nuovi investimenti;
in secondo luogo, i previsti incentivi per le nuove assunzioni mirano a conservare su livelli bassi i salari e ciò crea un incoraggiamento ad utilizzare manodopera a basso costo, disincentivando l’innovazione e l’incremento della tecnologia.